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SAN SIRO 1985

La tua storia

SAN SIRO 1985

21 giugno 1985, San Siro – Bruce Springsteen

Luca, il ragazzo per cui avevo perso la testa, veniva a casa in licenza, e mi aveva invitata ad uscire con lui....o me o il concerto  Ma no, quel giorno seguii il mio cuore  Un cuore vagabondo..... Ricordo la partenza alle 7 del mattino L'attesa infinita x l'apertura dei cancelli, l'emozione, il caldo la fatica, il sudore....poi finalmente dentro..... Siamo nati X correre....via di corsa per essere davanti il più possibile Un'attesa lunga, bellissima....tutti uniti per lui....tutti amici anche senza conoscerci  Il caldo, le docce....e alle 19 Arriva....arrivano  Un boato e via credo 4 ore di una danza infinita  Un dare e avere reciproco fra noi, il suo popolo, e lui il nostro Dio Ad un passo dal paradiso.....quanto ho riso, ballato e pianto Ricordo il gigante vestito di bianco che sembrava fare l'amore con il suo sassofono, The Big Black Man..... I giochi con Springsteen ...un vulcano di amore  , passione ed energia.... Credo di aver capito la differenza tra un concerto rock ed un concerto di Springsteen con la E street Band Dopo 4 ore non eravamo ancora sazi..... Ho vissuto qualcosa di unico ed indimenticabile che mi ha accompagnata per tutta la vita è mi accompagnerà ancora Si è consolidato l'amore per il Boss ...a proposito Luca non l'ho più rivisto 😉

Angela Galvanetto


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Luci a San Siro. Eravamo tutti là. Vent’anni. Non avevo molto, non mi mancava nulla. Avevamo la voglia di futuro. Gli amici. Tutto era possibile. Il primo anno di una nuova vita. L’università, appartamento a Milano con due amici del liceo, una stanza una cucina un bagno, perfetta cosi. Le pareti con i poster dei nostri preferiti. Io avevo scelto Bruce, il mio amico Guglielmo Neil Young, Giovanni probabilmente avrebbe scelto Franco Battiato ma gli è mancato il coraggio, o forse il poster.

Venivamo dalla provincia, da un piccolo paese di cinquemila anime in un Piemonte mezzo lombardo, senza nemmeno un negozio di dischi; la metropoli era lontana e silenziosa, le occasioni di confronto rare, la musica che seguivo era quella dei cantautori, Dalla, De Gregori, Baglioni (sì, mi devo pentire?), il rock era quello di Bennato, Finardi e Vasco, che si affacciava con i primi concerti a cui avevo assistito in posti improbabili. Quando hai vent’anni e sei cresciuto in provincia, resti sempre un provinciale, niente da fare.

Avevo quindici anni, quando nell’estate del 1980, per la prima volta a Londra, ero affascinato dagli enormi negozi della Tower Records invasi dalle copertine di un disco doppio con un primo piano di un ragazzo che mi ispirava molto, ma non ero pronto. Quello stesso anno a San Siro Bob Marley aveva infiammato lo stadio con la sua rivoluzione reggae, ma io non potevo capire.

Un giorno, poi, a Mr.Fantasy, Carlo Massarini parla di questo rocker del New Jersey che fa dei concerti straordinari di più di tre ore e trasmette un video (dalla qualità discutibile) in cui questo ossesso suona in modo trascinante e lascia il pubblico in visibilio. Ho deciso in quel momento che lo avrei amato, ma non avrei pensato mai così tanto.

La ricerca non era facile come ora, recupero quello che posso recuperare, i dischi precedenti, il mitico concerto di No Nukes, mi cattura la mitologia attorno ad una canzone come Thunder Road e non vedo l’ora di poterlo vedere dal vivo. Si parla del mitico concerto di Zurigo della tournee di Darkness a cui molti italiani sono riusciti ad assistere e ne parlano estasiati.

Cresce la consapevolezza di essere nella generazione sbagliata, quella di mezzo, quella sfigata. I ragazzi più grandi di cinque anni hanno un immaginario molto più articolato, hanno già avuto esperienze illuminanti, noi con questa storia della generazione del riflusso, non siamo nè carne nè pesce, forse ci dobbiamo accontentare dei cantautori e di Sanremo.

Arriva, incredibile, viene in Italia e suonerà a San Siro. Sono stato a San Siro qualche volta a vedere degli Inter-Juve con il mio amico Andrea, su sponde opposte. Poi lo stesso Andrea ci ha convinto ad andare al concerto di Bob Dylan e Carlos Santana, il 24 giugno 1984, con Pino Daniele ad aprire. Una giornata intera in quello stadio ad ascoltare musica, dal primo pomeriggio alla notte. Eravamo diventati grandi, l’anno della maturità, le prime esperienze amorose (fallimentari, peraltro).

Andrea non era interessato a Bruce, non si è unito a noi al concerto, troppo mainstream per lui, forse. Molto cattolico, non digeriva Adam Raised a Cain. Nel primo anno di università si era allontanato da noi ed era precipitato in un cono depressivo di cui avremmo capito troppo tardi la portata. Mi rimane forte il rimpianto di non aver insistito. Ma questa è un’altra storia.

E così viene il momento. L’eccitazione è massima, un minimo di timore di essere delusi ed una grande speranza di redenzione.

Che eravamo provinciali l’ho già detto. L’importante era esserci, per cui un biglietto valeva un altro, e ci siamo ritrovati in cima al secondo anello dello stadio, perchè il terzo ancora non esisteva. Siamo arrivati abbastanza presto (provinciali, dicevo), al mattino, per prenderci almeno un posto centrale e la febbricitante attesa si è materializzata, con uno spettacolo di pubblico che diventava sempre più coinvolgente. Belle persone in attesa di un momento memorabile.

Se siamo ancora qui a ricordarlo non è stato solo memorabile, è stato uno spartiacque. Esiste un prima ed un dopo di quel concerto. Per molti di noi.

C’è quella famosa frase che noi appassionati di Springsteen ci siamo stancati di leggere: c’è chi ama Bruce Springsteen e chi non l’ha mai visto dal vivo. Perchè ci manca un pezzo: tra chi ama Springsteen, molti lo apprezzano come artista, ma solo ad alcuni ha davvero cambiato la vita. Siamo qui per ricordarci di questo e per esprimere gratitudine a quel ragazzo del New Jersey che ha saputo accompagnarci così mirabilmente nella nostra parabola esistenziale.

E’ ancora giorno, c’è ancora tanta luce quando esce sul palco, con la tua tenuta da palestrato anni ’80 ed attacca Born in the USA, con il ritmo, la batteria rutilante, la rabbia di chi vuole e si merita altro dalla vita, poi Badlands e Out in The Streets. Estasi.

Ne ho visti tanti di concerti di Bruce, dopo. Sono un dilettante a confronto di molti, ma resto orgoglioso dei miei 21 concerti. Ebbene, c’è una sensazione comune che ho sempre provato. Dopo la terza canzone ti senti appagato. Sai che è ancora un lungo viaggio, sai che non vorresti che finisse mai, sai che cosa significa provare gioia e soddisfazione, ma dopo la terza canzone sei già stato ripagato di tutto. Sei pienamente dentro lo spettacolo, sei su quel palco anche se ti separano cento metri. Ti senti sul palco insieme a tutti gli altri spettatori, una splendita partecipazione collettiva. Ti senti già pieno e non ti sembra possibile che quella gioia possa durare ancora tre ore. C’è stata un’eccezione, in realtà. Al Circo Massimo, il 16 luglio 2016, la magia è avvenuta dopo la prima canzone, era New York City Serenade. Fine della parentesi.

Mi sono spesso domandato perchè. Perchè quel momento è stato così fantastico. Che cosa lo ha reso unico. Quanto c’è di Bruce e quanto c’è di me in quel sentimento. Ho provato spesso a spiegarlo e mi sono ritrovato di fronte a sguardi benevoli, al massimo colpiti dalla mia ammirazione, raramente partecipi con il corpo. Della serie, certe cose o le senti o non le senti, non è che si possono appiccicare o emozionarti per interposta persona. Eppure c’è quell’alchimia incredibile il cui ingrediente principale è lui, contornato dagli amici della Estreet Band, reso vivo dalla moltitudine di individui che palpita all’unisono e da ogni singola esistenza come la tua, che si ritrova davanti allo specchio.

Poi arriva Johnny 99. Proprio Johnny 99, come non te l’aspetti, full band. Proprio Johnny 99, la canzone che avevo scelto per fare proseliti. Il testo che declamavo con gli amici per far capire che quell’uomo non era solo muscoli, non era solo energia, aveva in sè la voglia di raccontare le storie dei più sfortunati, viste dalla loro prospettiva. Stendo un velo pietoso sui risultati delle mie declamazioni. Il solito sguardo di penosa accondiscendenza.

Quindi Atlantic City, non ci posso credere. Un’altra mazzata, aspra, dura, quasi senza speranza, perchè alla fine un briciolo di speranza c’è sempre, una ragione in cui credere, perchè tutto muore, ma quello che muore un giorno ritorna. Troviamo la forza per resistere fino a quel giorno.

Sono già stremato quando arriva l’armonica di The River. La storia che siamo tutti educati per fare quello che faceva nostro padre, così vera anche nella nostra società, quel fiume che diventa secco e la delusione di quanto i sogni non si avverano e sono solo bugie o qualcosa di peggio (ho capito solo molto più tardi grazie a Alessandro Portelli che quel qualcosa di peggio era la premeditazione di una società che costruisce il successo di pochi sulle illusioni concesse alle masse). L’incedere finale, con i cori, l’armonica e la melodia che ondeggia senza voler finire, mi tolgono il fiato. E’ il secondo momento in cui mi sento ripagato e felice. Felice di sapere a vent’anni che la vita è una fregatura? Felice di sapere che sogniamo per nulla, perchè i nostri sogni non si avvereranno mai? No, felice a vent’anni di sapere che vale sempre la pena sognare, perchè essere lì dà un senso ai nostri sogni.

Già allora, al mio primo concerto, mi è subito parsa chiara la maestria con cui la scaletta era stata concepita. Dopo l’emozione così intensa di The River, via con l’energia, il movimento, il rito collettivo. Una sequenza di pezzi trascinanti in cui la band si scatena ed il pubblico non smette di muoversi: Working on the Highway, Trapped (cover di pura energia), Prove it All Night (quell’assolo di chitarra prolungato ed il desiderio di continuare ad oltranza), Glory Days (tutto il pubblico risponde ai suoi gorgheggi - fantastico, dice - e la introduce con “una canzone sul diventare vecchi ed io sto diventando vecchio...ho 35 anni...”).

A questo punto, riprendiamo il discorso principale, con un trittico da paura. The Promised Land. Quel coltello che doveva tagliare via il dolore (si scrivevano queste frasi sui diari, allora), la tempesta che spazzerà via tutto tranne quello che ha le radici per resistere. Il senso della nostra vita. Il valore delle radici in My Hometown, dedicata alla nostra città (dalla mia città alla vostra città). E Thunder Road, la canzone delle canzoni. La Sintesi assoluta. Quella portiera che si apre, il viaggio che non è gratis, le ali sull’autostrada. L’armonica che chiude. Bisogna essere forti di cuore.

Come sempre, dopo una grande emozione, vira. Ed è una strambata decisa, mai vista (anche negli anni successivi). I sintetizzatori anni 80, la disco music, Diana Ross, quello che noi odiavamo, Cover Me. E poi Dancing in the Dark con l’idea del ballo, della leggerezza, della superficialità. Glielo abbiamo perdonato, poi lo abbiamo anche capito. Ed il testo di Dancing si fa assolutamente benvolere, con quella scintilla che dobbiamo procurarci per accendere il nostro fuoco.

Giusto il tempo per riprendersi dalla svolta elettronica e comincia un nuovo capitolo, con un grande trittico. Un altro di quei capitoli apparentemente gioiosi che nascondono comunque tragedie familiari. Quel capolavoro di Hungry Heart (piaceva moltissimo anche a John Lennon ed è il pezzo per eccellenza dal vivo, di immersione nel pubblico), Cadillac Ranch, Downbound Train. Per ballare seriamente.

E’ buio da un pò, si può creare un’atmosfera più intima (intima in quello stadio...), ed ecco che I am on fire la riempie di dolcezza e desiderio.

Speravo che suonasse Because The Night, che mi ha sempre intrigato per la collaborazione con Patti Smith, anche perchè non l’aveva mai pubblicata. Ed eccola lì, bella come il sole, o meglio come la notte che appartiene a tutti noi.

E’ il primo pezzo di un altro trittico pazzesco, dopo arrivano Backstreets (veniamo tutti dai bassifondi) e Rosalita (lo so che non piaccio a tua mamma perchè suono in una rock and roll band).

Improvvisamente tutto si ferma. Bruce ringrazia ancora tutto il pubblico, per aver avuto la pazienza di aspettare e per l’amore che trasmette. Ed intona una incredibile Can’t Help Falling in Love with You. Tutto lo stadio è in raccoglimento, una preghiera ascoltata in religioso silenzio. Gli accendini. Uno spettacolo da lassù, secondo anello, la vista abbraccia la moltitudine di persone. Si percepisce l’umidità emotiva emessa da tutte queste persone.

Cinque secondi per riprendersi. Sorpresi e tramortiti.

Si riparte. Si va in discesa. Born To Run, il manifesto di Bruce, correre, correre, correre. Ma l’amore è vero? Ma l’amore è reale? Non importa, corri, corri, corri.

Bobby Jean, sull’amicizia, una delle mie canzoni preferite. Perchè a vent’anni ascolti la stessa musica, ami gli stessi gruppi, ti metti la stessa roba, e i tuoi amici sono tutto, ti identifichi in loro, sono la tua vita. Mi commuovo ogni volta che la ascolto ancora oggi.

Siamo alla fine, solo un ultimo ballo, un grande ballo.

Ramroad, prima, per riscaldare gli animi (ce ne fosse per caso bisogno) con un rock classico e deciso: Poi Twist and Shout.

Tanto si è detto su questo Twist and Shout, venti minuti di un pezzo che non volevano smettere mai. Per tre volte ci hanno provato, ma poi riprendevano. Ci guardavamo e ci dicevamo: non è possibile. Luci a San Siro. Stadio illuminato a giorno. Siamo tutti là. Tutto lo stadio ballava. Anche i Carabinieri e la Polizia si lasciavano andare, dopotutto rischi non se ne vedevano all’orizzonte. SI sentivano ondeggiare le gradinate sotto il ballo di tutti. Si fosse potuta misurare la felicità, avremmo superato ogni scala.

E continua, e continua, e continua.

Dopo diciotto minuti, finisce, l’ultimo rullo di batteria, dopo la scena del “prigioniero del rock and roll”, dopo essersi scatenato da destra a sinistra, dopo aver duettato con tutti i componenti della band.

Siamo stanchi e felici. Siamo pronti per andare a casa con il cuore gonfio. Ma Bruce non si accontenta. Ha capito che si trova davanti a un pubblico eccezionale. Ha capito che ha sbagliato a non venire prima in Italia. Ha capito che anche per lui ci sarà un prima ed un dopo San Siro. E quindi se ne esce con una cover di John Fogerty, Rocking All Over the World. Una ballata che suggella in modo straordinario questo momento speciale.

Saluta, ci rivedremo. Certo che ci rivedremo. Non ci scappi più, caro Bruce.

Siamo entusiasti quando scendiamo le gradinate, ci avviciniamo all’uscita, andiamo verso le macchine. Pazzesco, pazzesco, pazzesco.

Scusate, scusate, scusate. Non mi sono reso conto di quello che ho fatto. Non so chi è arrivato a leggere fino a questo punto. Non volevo essere prosaico. Soprattutto non volevo fare la cronaca del concerto, avrei voluto parlare semplicemente delle mie emozioni. Mi sono però ritrovato a non riuscre a scindere le emozioni da quello che succedeva sul parlo. Perchè la successione delle canzoni fa capire che un concerto di Bruce è costruito come un viaggio con tante tappe che rappresentano i vari momenti della vita. In un concerto di Bruce trovi tutte le emozioni possibili, trovi te stesso, la tua vita spogliata dalle sovrastruture.

C’è un prima ed un dopo il concerto di San Siro del 1985. Potremmo dire che è stato un concerto perfetto. Ma quasi sempre Bruce riesce a fare il concerto perfetto, per quel momento, per quella circostanza. Non mi ha mai deluso, ogni volta temo che possa essere meno intenso ed ogni volta mi stupisce. Ancora oggi il concerto più bello a cui ho assisito è l’ultimo: Roma Circo Massimo.

La cronaca del concerto serve però a percepire come sia possibile che a 35 anni di distanza ci siano persone che hanno ancora voglia di ricordarlo e di raccontarne. Non per la nostalgia dei vent’anni, ma per voler condividere che cosa ha rappresentato nella nostra vita.

L’oggetto più innovativo a quel tempo era il CD e nessuno avrebbe scommesso che i dischi in vinile gli sarebbero sopravvissuti. Non c’era la connessione, ma c’erano i bootleg e magicamente dopo qualche mese quel concerto era riproducibile sullo stereo di casa grazie a tre stupendi LP. Con tecnologie più complicate si riuscivano a fare le stesse cose, con un po’ più di fatica e di pazienza.

Il mito cresceva e volevo essere come Massimo Cotto che dai microfoni di StereoNotte alimentava il nostro sogno. Non immaginavo che la presenza di Bruce rimanesse così forte nel tempo, che tornasse sempre più spesso in Italia, che ci regalasse così tanti diversi stimoli (la biografia, broadway, il film, i programmi radio, il nuovo disco) e che ci continuasse ad accompagnare nelle varie fasi della vita, anche quelle meno emozionanti.

Oggi i miei figli hanno quell’età, anzi sono già più vecchi, non so che cosa hanno in testa, auguro loro di vivere una passione come quella che è capitata a noi a quel tempo. Una passione che ci ha gioiosamente accompagnato e che è sempre rimasta intensa. Quando, dopo ore di attesa, si spengono le luci, esce sul palco ed attacca a suonare, torniamo quei ragazzi, siamo sempre noi. Ed è una garanzia. Lui è invecchiato, noi siamo invecchaiti, ma le cose importanti per cui vale la pena vivere sono sempre quelle. E’ cambiato il tono, è cambiata la prospettiva, sono cambiate le aspettative (si sentiva già vecchio a 35 anni...). Sono cambiate le nostre vite, sono cambiati i nostri obiettivi, abbiamo famiglia ora. Ma i valori sono quelli, sempre quelli.

Grazie, Bruce. Per allora, per oggi, per domani.

Massimo Balestri


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